È un conforto nella mia vita, -
poiché è stato anche uno
scopo al quale ho dedicato molto di me stesso, - ricordare attraverso
tanti
periodi l'apparire, lo svilupparsi, e l'affermarsi di quelle produzioni
d'arte
italiana moderna, fra le quali singolarmente eminenti gli smalti di
Paolo De
Poli, produzioni che, maturando, si sono inserite poi nelle espressioni
medesime del nostro amato paese, e che oggi lo rappresentano degnamente
ovunque, ed hanno contribuito a creare nell'intero mondo moderno quel
riconoscimento delle arti italiane moderne che tanto ci onora.
Quegli episodi fanno parte della mia vita per due versi, e
simultaneamente. Un verso è quello dell'arte. l'altro è
quello umano. Ed io non
li so scindere. E raro infatti che io abbia pubblicate e commentate
delle cose
d'arte in «Domus» o in «Stile», o le abbia
presentate nelle Triennali di
Milano, o nelle altre esposizioni che ho organizzato all'estero e in
Italia, o
che le abbia impiegate nelle mie opere d'architettura o d'arredamento -
dagli
edifici alle grandi navi, e che queste cose non fossero assieme ad una
testimonianza d'arte, una testimonianza d'una cara consuetudine con gli
artisti.
Uno degli uomini a me più cari e che reputo uno fra i più
valorosi maestri nell'arte sua fra quanti ho conosciuto nell'operare,
è Paolo
De Poli, lo smaltatore padovano al quale sono legato da tante opere o
iniziative comuni, dai pannelli per
lo sono poi ancor più legato a De Poli dal favore che egli
mi ha tanto spesso concesso, secondando una passione irreprimibile
della mia
vita, di cercare delle forme per i suoi smalti e di eccitarlo a creare
con la
sua eccezionale esperienza - come egli è magistralmente riuscito
- quelle gamme
che ci incantano tutti, dei suoi azzurri trasparenti e profondi,
argentati e
lunari, con i quali ha coperto animali e vasi che avevo pensato per
lui,
trasponendoli in una espressione poetica. Oltre però che
dall'ammirazione per
la sua tranquilla maestria e fedeltà all'arte difficile e
sapiente dello
smalto, io gli sono legato dal conoscere da tanti anni la sua amicizia
sicura,
fedele, la sua grande bontà; la sua dirittura, e lo spirito e
l'animo suoi,
mondi da ogni pensiero malizioso.
Ma c'entra questo in una presentazione d'arte che dovrebbe
essere di critica d'arte? Voi sapete la mia teoria: l'arte è la
espressione di
un uomo, e noi la riguardiamo come tale. Non diciamo ad esempio d'uno
smalto
che «è un De Poli»? o d'un vetro che «è
un Venini»? E la cosa si estende a
tutte le arti: è sempre la testimonianza d'un uomo. Ma
così dicendo, e l'arte
sia pur l'arte, di qual conforto vitale è, mirandone il frutto,
il veder
rappresentata in essa anche la presenza d'un uomo giusto!
«Non v'è maggior piacere nella vita e
nell'esercizio
dell'arte, che il veder affacciarsi all'arte, un temperamento, un
animo, un
uomo!» per dirlo con l'arch. G. Ponti.
Infatti, fin da giovane ho sempre seguito questo ciclo
personale dello smalto e lo sbalzo sul rame, del Maestro P. De Poli,
con molto
interesse. Questo interesse è durato nel tempo e vive tuttora!
Dire di Paolo come personaggio molto attivo nello sbalzo, ma
soprattutto nella ricerca dello smalto sul rame, è poco. L'ho
sempre seguito
con ammirazione: ricordo ancora il famoso «gallo» in rame
smaltato. Ho in
mente, altresì, il suo atteggiamento di vero maestro nei
confronti di chi
voleva imparare. Personaggio di un'umiltà senza simulazione, di
una trasparenza
genuina di semplicità, dava al giovane, che si iniziava alla
Scuola dell'arte,
tutto se stesso.
Nel 1964 partecipammo ad un Congresso presso la «Columbia
University» di New York e, in quell'occasione, mi rimasero
impressi i suoi
illuminati interventi e soprattutto il suo comportamento morale. Era
interessato a tutto; al vivere degli Americani, ai loro usi e costumi;
approfondiva le sue ricerche su ogni cosa. Ho capito che amava l'arte,
l'arte
vera, reale, quella che parte da un animo semplice, umile,
anticonformista.
Assieme siamo stati di Commissione al «Premio della Casa»
della Fiera di
Padova, e tuttora ne facciamo parte.
Forse mi ripeto, ma la sua umanità, la sua professione
vissuta come ricerca reale dell'arte, il suo comportamento adamantino,
hanno
fatto e fanno sì da portarlo ad essere amato anche dai giovani;
il suo
dinamismo, la sua prontezza a tutte le manifestazioni, la «sua
sapiente
sensibilità» di Maestro in un'arte così difficile,
saprà fare realizzazioni
superbe e preziose.»
Forse non ho detto tutto, ma l'ammirazione e l'amicizia che
mi legano a Paolo, sono tutto!
Quando scrivevo il romanzo Un altare per la madre, nel 75-78 (è un romanzo brevissimo, ma ci ho lavorato quattro anni, perchè ne ho fatto 19 stesure diverse: mi sono logorato su quel libro), mi son trovato a dover descrivere la lavorazione del rame. Ne sapevo pochissimo. Dovevo raccontare di un personaggio - il protagonista, il padre - che si mette a scaldare, a fondere, battere, scolpire il rame, seguendo l'impulso di una febbrile ispirazione, per costruire un altare con raffigurazioni di una tradizione cristiano-agreste. Volevo essere molto preciso, quasi didattico. Allora vado da Paolo De Poli, gli spiego che cosa ho bisogno di imparare. Per interi pomeriggi lui mi ha fatto assistere ai suoi lavori: come fissava le sue fantasie sul metallo, come Io piegava, come lo arrotondava, come lo saldava, come lo raffreddava. lo guardavo gli oggetti che uscivano dalle sue pinze, dai suoi martelli, che friggevano nei suoi catini, e prendevo appunti. Mi sentivo molto scolarizzato, quasi intimidito. Ne ho ricavato una dozzina di pagine, per quel libro che ora è tradotto in Francia, in Germania Est, in Germania Ovest, in Unione Sovietica, negli Stati Uniti, in Ungheria, in Romania...: quando mi raffiguro i lettori di questi paesi, intenti a leggere quelle pagine, in realtà mi par di vederli nell'officina di De Poli, intenti a fissare questo artista che batte, pinza, torce, raddrizza, pianta le brocche, cuce, tuffa nei liquidi, alza le sue scaglie di rame, le guarda nella luce.
Una mostra di Paolo De Poli è una
straordinaria fortunata
occasione: per chi conosce ed ama
Paolo De Poli riscopre e rilancia 50 anni fa l'arte dello
smalto, l'arte cioè di far vivere e vibrare i metalli - ferro,
rame, argento -
vestendoli di polveri vetrose che il calore della fiamma fa fondere ed
aderire
al metallo creando superfici luminose e colorate di insuperata bellezza.
Nell'arte dello smalto, nella quale in seguito molti si sono
cimentati, Paolo De Poli rimane l'unico sulla vetta, il solo capace di
darci,
con le Sue opere, una intensa emozione. E come se le sue opere
parlassero: e ci
raccontano e ci svelano il mistero della materia che si trasforma, il
potere
del fuoco che fonde e trasfigura, la superba e pacata maestria che
questo fuoco
guida ed indirizza verso determinati risultati, verso effetti previsti,
con
quel tanto però di casuale e di imponderabile che rende
più stimolante il
lavoro dell'artista, più intensa e stupefatta l'emozione di chi
ne fruisce.
De Poli conosce ed utilizza ogni infinita possibilità di
colore dello smalto, ogni infinita possibilità di effetto
offerta dal metallo
sottostante, che è liscio, o martellato, o sbalzato in forti e
profondi
rilievi, dislivelli e crateri per rendere con più efficacia
l'immagine che il
Maestro vuole ottenere: strati sottili e preziosi di smalto sul metallo
liscio,
piccoli stagni luminosi e vibranti di colori sovrapposti nel metallo
sbalzato,
il tutto fuso in un discorso d'insieme coerente e suggestivo, senza
leziosità e
sdolcinature o futili virtuosismi: la preziosità del particolare
non è mai fine
a se stessa ma fa mirabilmente parte dell'insieme.
Da 50 anni Paolo De Poli continua a lavorare, a
sperimentare, a trovare nuove soluzioni; con intelligenza, con impegno,
con
profonda conoscenza tecnica, ma anche con amore, con gioia, con
divertimento;
con l'orgoglio e la fierezza in particolare, in questa Sua quotidiana
sperimentazione, in questa Sua manualità fatta anche di vero
sudore e di
autentica fatica, di sentirsi intimamente, profondamente Artigiano: una
lezione
di modestia ai tanti che si sentono subito artisti; un invito a
meditare ed a
distinguere a chi, per ignoranza o convenienza, ha tolto dignità
e prestigio
alla parola «artigianato», contrabbandando per produzioni
artigianali la
paccottiglia, la banalità, il cattivo gusto, l'improvvisazione,
l'arroganza.
L'Artigiano Paolo De Poli ci offre, con questa mostra,
momenti di autentica gioia ed emozione: godiamo quindi liberamente
delle
trasparenze argentee e luminose dei suoi smalti, delle misteriose
preziosità
lunari, delle incantate magie siderali. Scopriamo gli azzurri intensi
del mare
e del cielo, i colori delle nuvole, delle profonde ed inviolate grotte
marine;
della rugiada leggera, delle sorgenti limpide, delle tumultuose
cascate; delle
radiose albe dorate, delle notti profonde improv¬visamente
illuminate da
bagliori di lampi, delle perlacee luminescenze dei laghi; dei rossi e
dei
bronzi di un autunno infuocato, dei tremolii di luce tra le fronde di
un bosco,
dei riflessi cangianti, dei suggestivi colori dorati del sole al
tramonto, dei
bagliori cristallini dei ghiacciai, delle vibrazioni cromatiche intense
e
sapienti, delle continue invenzioni di effetti e di preziosità,
dei passaggi di
colore a volte dolcissimi, a volte bruschi e drammatici. Se ne rimane
storditi
ed abbagliati; ma si scopre anche che, nella infinita varietà
dei colori, delle
forme e delle suggestioni, c'è un unico filo conduttore: lo
smalto, con la sua
purezza e la sua bellezza alleato del fuoco, dell'intelligenza e della
fantasia, capace di trasformare il metallo in luce e splendore.
Da anni, ormai molti, sono amico di De Poli per
«colpa»
delle sue opere.
Quando anteguerra operavo all'ENAPI (Ente nazionale
artigianato e piccola industria) e durante i lunghi ventitré
anni che diressi
Anche in occasione delle mostre all'estero che il Ministero
degli Esteri e il Ministero della Pubblica Istruzione addossavano
volentieri,
durante la mia gestione, alla Triennale di Milano - furono molte - per
dare maggior
lustro alla presenza italiana gli smalti di De Poli non potevano
mancare. I
colori pastosi, le superfici luminose, i toni bassi e all'improvviso
vivaci, i
piani cromatici molto sobri hanno fatto si che l'arte del Nostro
s'incamminasse
su un percorso tale da rendere felice chi, come me, lo ammira come
artista
onesto, fedele a se stesso, al suo modo di vita e al suo mondo.
Nel suo campo è veramente il primo.
I miei primi incontri con Paolo De Poli furono in
occasione
delle Biennali veneziane, quando, negli anni cinquanta, mi trovai a
partecipare, con Giuseppe Dell'Oro, organizzatore indimenticabile,
all'allestimento delle mostre nel «Padiglione Venezia». Il
padiglione era
allora tutto dedicato alle arti decorative, e lo fu per vario tempo:
ora non
più, e se ne sente la mancanza.
Affascinava, in quelle mostre, l'accostamento di materie in
apparenza diverse: dai vetri alle ceramiche, dalle lacche ai mosaici,
dalle
oreficerie agli smalti. E in verità le creazioni di De Poli vi
trovavano motivi
di risalto e di comunanza ad un tempo, nella ricerca di sempre nuove
gamme
cromatiche, nella varietà e fantasia dei repertori formali.
Ricordo quanto viva
era l'ammirazione dei visitatori, e quanto io stesso ne rimasi colpito,
anche
nella curiosità di studioso, per quella straordinaria rinascita
di una tecnica
antica.
Sapevo che la presenza di De Poli alle Biennali non era
certo nuova, poiché già egli vi aveva partecipato sin dal
lontano 1934, con
Pietro Chiesa, presentando fra l'altro le graziose targhette con
«Pesci» in
tutto smalto a spessore. Tecnica cui era giunto, trasfondendovi l'esito
delle
giovanili esperienze nel campo della pittura, ricreando con moderne
interpretazioni il classico «cloisonné».
Nella strada percorsa dopo quei primi generosi risultati,
non v'è dubbio che anche l'incontro animatore con Dell'Oro fu
incentivo per la
ricerca di sempre nuove esperienze, in quella palestra veneziana:
fucina di
opere e di confronti, occasione di amicizie con uomini come Ercola
Barovier e
Paolo Venini per non citar altri, e trampolino con le Triennali
milanesi di Giò
Ponti alle successive manifestazioni internazionali.
L'occasione, oggi, di vedere in unica rassegna su tanto
vasto arco di tempo, l'operosità instancabile del nostro De
Poli, mi riporta al
pensiero di quelle mostre veneziane, e all'auspicio per una ripresa,
nella
medesima sede, di manifestazioni analoghe. Utili a sollecitare i
giovani anche
in quest'arte stupenda dello smalto, che il maestro padovano ha saputo
e sa
tuttora continuamente rinnovare.
Incontrare De Poli è stata sempre e lo
è tuttora, una
stimolante, affascinante avventura. Avventura che inizia già
quando percorri
gli avvolgenti stretti portici di Via S. Pietro a Padova, nel cuore
della
vecchia città, dove al N.
L'avventura continua ancora quando sali la scala dai gradini
consumati dalle continue percorrenze, ed infine diviene sorprendente
quando
entri nelle stanze col-me del fascino di mille cose, oggetti-opere,
quadri, disegni,
sparsi ovunque. Li vedi sul tavolo, sul pavimento, sulle pareti, sui
davanzali,
nelle vetrine. Oggetti-opere dai magici brillanti colori che solo De
Poli tra
gli artisti contemporanei sa trovare nei suoi smalti. Infine
l'avventura si
concretizza quando incontri De Poli e scopri con quanta intelligenza e
finezza
egli ha saputo e sa unire il lavoro di sorprendente artigiano alla
creatività
dell'artista.
L'uomo di ieri è già l'uomo di domani quando ti parla dei
suoi progetti e delle future realizzazioni, l'ultima delle quali i tre
grandi
smalti raffiguranti «il Prato della Valle» soggetto a lui
caro e più volte
ripreso. Sono già pronti i cartoni di raffinato segno.
La sensibilità e l'abilità di questo artista è
riscontrabile
intatta e costante sia nei grandi smalti che decoravano le pretenziose
sale dei
transatlantici italiani, sia nella piccola ciotola destinata a
contenere i tre
confetti di una sposa. Ma dove lo smalto esprime il suo ambiguo
affascinante e
misterioso linguaggio, è, secondo me, in quella serie di
invenzioni che De Poli
chiama il suo «Zoo». Gli iridescenti grandi pavoni e le
tenere pavoncelle, i
grandi superbi galli blu e le assurde galline, rutilanti tori e lunghi
gatti
azzurri e . . . altri ancora.
L'avventura di incontrare De Poli, e si vorrebbe non finisse
mai, si conclude nell'essenza di questo artista e si chiama: Lavoro,
amicizia,
speranza.
I lavori di rinnovamento nelle sedi centrali
dell'Università
di Padova, il Bò e il Liviano, cominciarono subito dopo la
nomina a rettore di
Carlo Anti nel 1932, ma ebbero la loro fase più intensa dal 1938
al 1942 e
furono esemplari sia per il pregio dei risultati nel campo
dell'architettura,
in cui Giò Ponti dimostrò tutta la sua finezza nel
compito non facile di far
convivere e di valorizzare strutture ed elementi antichi insieme con
cose
dichiaratamente moderne, e nell'arredamento degli interni, sia
perchè si fece
un uso attento e veramente geniale delle disposizioni di legge, allora
recentissime, per cui nelle spese per la costruzione o il radicale
ripristino
degli edifici pubblici una percentuale fissa doveva essere desti-nata
ad opere
di decorazione artistica.
L'appassionata competenza di Carlo Anti, ed anche, è giusto
ricordarlo, la collaborazione di Giuseppe Fiocco, dimostrarono come si
può
spendere bene il pubblico denaro. Il Bò e il Liviano resteranno
come il miglior
documento di buona parte di quello che c'era di vivo e di valido allora
in
Italia.
L'affresco di Campigli al Liviano è l'opera più alta di
questo artista che, famoso in Italia e forse ancora di più in
Francia, aveva
trovato nelle sue figure schematiche e arcaizzanti e soprattutto nei
suoi volti
di donna, una sorta di sigla o di modello tutto suo, evocativo di
schematismi
primitivi e insieme di astrazioni di certa pittura italiana del tardo
Ottocento
e di altre astrazioni più recenti e di ben altro significato di
Braque e di
Picasso; di colori di pitture dell'antico Egitto e di incantati
ritratti del
Fayum. Solo di fronte alle rigide pareti di quella sorta di piscina che
Giò
Ponti aveva architettato per l'atrio del Liviano, Campigli seppe
distendere le
sue ceramiche (così erano dette le sue figure soprattutto per il
colore) in una
composizione vasta di un contrappunto sapiente, rivelando una sua
spazialità
perfetta-mente coerente con la sua personalità artistica,
creando un'opera
complessa di cui pochi lo avrebbero ritenuto capace, ma che gli
riuscì
perfettamente: tanto per dimostrare che non c'è niente che
sappia rivelare un
artista quanto la intuizione di un intelligente committente.
L'archeologia di
Carlo Anti fu meraviglioso incentivo per l'arcaismo di Campigli.
E così fu grande merito di Anti l'aver chiamato un artista
come Severini a fare una nicchia in mosaico in una sala del Palazzo del
Bò.
L'amore dell'archeologo Anti per una tecnica tanto usata
nell'antichità e nel
mondo bizantino e veneziano, fu straordinario stimolo per un artista
come Gino
Severini che, ricco dell'esperienza di tutta l'arte dei primi decenni
del
secolo, che egli aveva vissuto in Italia, ma soprattutto in Francia,
rivelò
tutta la sua ricchezza formale e le sue capacità di inventare
splendidi colori,
la sua vivacità e, si direbbe, il suo ottimismo in quella
felicissima
composizione: nell'affresco a soggetto storico della vicina sala di
Giurisprudenza lo stesso Severini, pure estremamente corretto, appare
come un
poco castigato e limitato dal tema.
Questo è un esempio insigne del fatto che per determinare il
livello di un'opera d'arte il soggetto conta ben poco: la nicchia a
mosaico,
che deve essere definita opera decorativa, è superiore
all'affresco dal nobile
soggetto. Teniamo presente questa osservazione quando si sentirà
parlare di
decorazione a proposito di certe opere di Paolo De Poli.
Gino Severini, lavorando a Padova insieme con Fulvio Pendini
che, oltre ad essere quell'ottimo artista che tutti conosciamo, era
anche un
ottimo tecnico e artigiano, prezioso nell'aiutare i colleghi a fare gli
affreschi e i mosaici (ed anche a insegnare ai più famosi di lui
come si
faceva), portò fra gli artisti padovani che lavoravano al
Bò e al Liviano una
cert'aria di Parigi. Anche Campigli poteva essere considerato un
parigino, ma
Severini era più anziano, più ricco di esperienze
personali, più vivace e comunicativo
e sapeva raccontare fatti e aneddoti in cui entravano un po'' tutti i
famosi
artisti degli anni gloriosi del primo Novecento da Picasso a Modigliani
e
perfino a Toulouse Lautrec. Oltre a Campigli e a Severini lavorò
allora a
Padova Arturo Martini, e il suo Tito Livio è la scultura
più alta che vide la
luce in Italia in quel tempo; lavorò Mascherini, i pittori
rappresentativi
della tradizione: Funi, Casarini, Ferrazzi; De Pisis e, fra i giovani,
Santomaso e Minassian. Anche gli artisti padovani: Pendini, Morato,
Giorgio
Peri, Boldrin e Sartori, furono spinti e quasi esaltati, lavorando in
quel
gruppo tanto importante, a dare il meglio di sè, ricercando il
migliore
approfondimento della loro individualità e della loro
capacità. Accadde insomma
a Padova, nei lavori dell'Università, quello che avveniva per
gli artisti dei
grandi secoli dell'arte italiana, che traevano grande incoraggiamento e
ammaestramento dal lavorare insieme alla realizzazione di importanti
complessi.
Vedendo ora, a distanza di oltre quarant'anni, quei lavori, ci sembra
di poter
notare fra tutti quegli artisti, fra cui era anche Paolo De Poli, pure
nelle
diverse individualità, una sorte di illustre parentela, ed
è nel fatto che i
temi ed i soggetti, che possono anche esser definiti celebrativi o
descrittivi,
non hanno mai fatto decadere il livello delle opere, perchè
tutti gli artisti
hanno saputo sentire i loro temi e renderli con vero impegno formale.
Merito di
tutti loro ed anche di chi li aveva saputi scegliere.
Paolo De Poli era già stato notato da Giò Ponti, che
aveva
un sesto senso che gli permetteva di scoprirei migliori valori e le
più
promettenti possibilità nel campo di quella che una volta si
poteva chiamare
arte decorativa o applicata e che oggi potrebbe essere detta arte che
ha una
particolare destinazione o utilizzazione pratica, pure restando, se lo
merita,
vera arte.
Facendo il pittore, più di paesaggio che di figura. Paolo De
Poli aveva scoperto la sua particolare vocazione per i colori
smaglianti e
brillanti, non campiti in modo uniforme, ma sottilmente variati nel
tono e
nella lucentezza, e si era dedicato ad una tecnica molto più
efficace della
pittura per esprimere questa sua particolare vocazione: lo smalto. Come
accade
anche in altre tecniche, nell'affresco e nel mosaico, il particolare
modo di
ottenere i colori, i materiali che vengono usati nella lavorazione
degli
smalti, gli effetti che se ne ricavano, furono suggerimenti continui a
nuove
ricerche. De Poli si dedicò quindi a scoprire, sperimentare,
variare tutta una
serie di colori, di riflessi, di splendori nei suoi smalti, e ad
arricchirli di
lucentezze e marezzature sempre nuove, variamente intonate e accordate;
si era
accorto a un certo punto di amare di più queste cose che la
rappresentazione di
paesaggi, di case dai tetti di tegole rosse, di prati dal verde
smagliante, o
addirittura dei volti e delle figure che lo avevano finora ispirato e
si era
dedicato ad ottenere, quasi esclusivamente, dal suo forno sapiente, con
una
tecnica lungamente elaborata e raffinata, gli oggetti che lo hanno reso
famoso,
i vasi, le coppe, le ciotole, i piccoli oggetti che attirano e
sorprendono con
la vivacità dei loro inalterabili colori. Ma Paolo De Poli ha
continuato sempre
a fare anche altre cose, cariche insieme di valori di colore e di
valori
formali, le colombe, gli splendidi pavoni, i galli dal piumaggio
rutilante, i
grandi pannelli col volo di uccelli marini.
L'occasione che gli è stata offerta nel 1940, il suo
intervento insieme al gruppo chiamato da Anti, ci dimostra quale
risultato egli
sapeva ottenere anche nel campo propriamente figurativo, con i due
celebri
pannelli che rappresentano il vescovo Giordano Forzatè e il
podestà Giovanni
Rusca che, accogliendo a Padova gli studenti esuli da Bologna, nel 1222
diedero
inizio alla Università patavina. I due pannelli, ottenuti con
una composizione
di mattonelle smaltate, sono veri simboli araldici e ricordano,
più che gli
stemmi, gli stendardi processionali.
Il vescovo Giordano, in posizione frontale come una figura
bizantina, ha sul capo la piccola mitra che è in tante antiche
immagini di
vescovi; ha lo sguardo fisso e il volto incorniciato da una corta barba
bianca.
Reggendo, col gesto solenne del braccio sinistro, il pastorale, tiene
aperto il
grande mantello, il pluviale, su cui sono raffigurate, tra i ricchi
ricami,
scene allegoriche. In alto a sinistra è lo stemma di San Martino
a cavallo che
taglia il suo mantello per darne la metà al mendico. Il
cartiglio svolazzante
che circonda tutta la figura accentua il carattere araldico della
composizione,
mentre la data, il nome, tutte le raffigurazioni sulle vesti, eccitano
la
fantasia di chi guarda con una quasi irraggiungibile ricchezza e
profondità di
significati.
La stessa ricchezza e moltiplicità di evocazioni è nella
parallela figura del podestà Rusca, che completa il quadro dei
due poteri,
religioso e civile, che fondarono e protessero l'Università. Il
Podestà ha gli
stessi occhi fissi e la corta barba bianca del vescovo Giordano, ma ha
in testa
un berrettone di un rosso cremisi così splendido che si impone
come punto
focale di tutta la composizione, per cui questa testa del
Podestà, spesso
riprodotta, è diventata il più conosciuto emblema del
Bò rinnovato nel 1940.
Le due figure, del Vescovo e del Podestà, sono un poco nella
tradizione del Novecento e si ambientano bene nel contesto delle altre
opere
degli artisti che lavorarono insieme al Bò e al Liviano in
quegli anni, opere
tutte di un livello formale così alto che hanno resistito
benissimo a questi
quarant'anni che sono passati, e siamo certi che ormai resisteranno
sempre.
Esse hanno un soggetto con un intento celebrativo, non vi è
dubbio. Ma i soggetti
predeterminati, le occasioni storiche, cui tanto si ribellano gli
artisti
attuali, non sono mai stati di danno alle grandi opere del passato, dai
frontoni dei templi greci, alla colonna traiana, dalla Cappella degli
Scrovegni
al San Lorenzo di Tiziano. Il rettore Carlo Anti è riuscito a
dimostrare che
questo si poteva fare anche nel 1940. Si potrebbe fare anche oggi?
Pensiamo di
si, a patto di trovare artisti che siano capaci di farlo. E sarebbe un
gran
bene per l'arte se si riprendesse questa antica strada, perchè
l'arte e gli
artisti hanno bisogno di occasioni e di grandi occasioni.
Paolo De Poli non ebbe più stimoli per impegnarsi in cose
figurative. Ma per un po' di tempo, dopo i pannelli del Bò, egli
si cimentò
ancora con le sue mattonelle di rame smaltato a comporre, per suo
conto, due
studi di copie di Giotto. E naturale che un artista della sua
particolare
sensibilità fosse colpito dal colore, o meglio si potrebbe dire,
dalla
superficie dipinta da Giotto, qui a Padova. Del colore di Giotto non si
parla
abbastanza nelle comuni opere di storia dell'arte. Sono colori chiari,
staccati, sapientemente intonati, lucenti, perchè l'ultima mano
di malta che
veniva dipinta a fresco è impastata con sabbie finissime e
spesso con polvere
di marmo; la superficie che ne risulta è liscia e compatta come
un marmorino,
cui aggiungono splendore le applicazioni in oro e argento delle aureole
e delle
cosmatesche e i fondi campiti di lapislazzolo. L'effetto è quasi
quello di uno
smalto di Limoges. Paolo De Poli con una sensibilità che hanno
più spesso gli
artisti che i critici, ha notato tutto questo e ha voluto cimentarsi in
uno
studio di trasposizione in smalto di questi raffinati effetti. Ma dopo
queste
prove e dopo una Crocefissione che fu esposta alla Biennale di Venezia
nel 1940
non ci risulta che abbia fatto altre cose su questa via, ed è un
vero peccato
perchè i risultati sono tanto buoni che ci auguriamo gli venga
ancora data
l'occasione di dimostrare che cosa può fare anche nel campo
figurativo con la
sua affascinante maestria nell'arte dello smalto.
Era bella - tanto per dirne una - l'invenzione
pontiana
delle figure di animali - gatti. pesci, cavalli, e anche cocomeri e
diavoli -
«ritagliate e piegate», come si fanno in carta. Figure
piane che «stanno in
piedi da sole». Erano un modo pontiano di usare ancora e sempre e
solo il
disegno - disegnare con le forbici - e non la materia corposa. E
l'accordo con
De Poli era completo, nel farne degli oggetti. De Poli, con
Divertimento e con
Bravura. Quella Bravura che rendeva possibile tutto, anche il
più difficile e
il più grande, nei «disegni» pontiani da trasferire
in smalto.
Quando poi De Poli lavorava di suo, di tutto suo, allora
poteva sfogare anche il suo amore per le forme informi, e portare al
massimo la
capacità di far preziosa la materia («i suoi azzurri
trasparenti e profondi,
argentati e lunari»). Quella materia che, con lui,
«é sufficiente espressione
d'arte come materia», dice ancora Giò Ponti.
E bello pensare (alla distanza immensa di solo 40 anni) al
«mondo delle arti» in cui queste capacità fiorivano.
Smalti. ricami, vetri.
Maestria ed invenzione, per dare forma bella agli oggetti e servire la
vita con
grazia. Il «mondo delle arti» viveva autonomo. Gli artisti
lo amavano come
tale. Giò Ponti amava dire che i suoi tavoli con piano in smalto
di De Poli
«piacquero a De Pisis e a Daria Guarnati». Uno dei ricordi
più lontani che io
ho delle Triennali erano i viaggi in Italia che Giò Ponti allora
faceva, per
andare dai «maestri» famosi, o nei luoghi artigiani famosi,
a eccitare con le
idee la tradizione. Ma Padova era Padova, e De Poli De Poli. Quello non
era un
viaggio, era un colloquio stabile.
Nel ciclo delle grandi Mostre organizzate dal
Comune di
Padova si inserisce oggi, nella Sala della Ragione,
Appassionato, ma non certo critico d'arte, desidero
manifestare il senso di soddisfazione per tale iniziativa che ci
consente di
vedere riunite così alte opere di un Maestro veneto e di
continuare l'indagine
nella profonda miniera di espressione e di pensiero che esse
costituiscono. Apporto
quindi di studio e di celebrazione della nostra civiltà e nel
contempo
celebrazione di una vita dedicata ad una continua ricerca.
Dall'esposizione risalta con evidenza la personalità di
questo caposcuola impostosi con il proprio talento e con i bagliori
iridescenti
dei suoi colori, la vivacità e la robustezza del suo tono e la
forza incisiva
delle sue forme.
De Poli crea una corrente che sublima l'artigianato
ponendolo sul piano dell'arte, con un ventaglio espressivo che la fa
emergere
sempre in assoluto.
Non voglio né potrei entrare nella disquisizione sulla
tecnica e sulla creatività dell'artista, desidero solo, come
profano, esprimere
quanto provo di fronte alla sua opera. In essa c'è tutto un
mondo che rispecchia
un animo proiettato nell'immenso e da esso riflesso nel particolare e
nel
reale.
Le opere di Paolo De Poli sono per me lo specchio più
limpido di chi ha trovato in questa forma di espressione la sua logica
e la sua
gioia di vivere e di attuarsi. Difficilmente ho incontrato un uomo
così completamente
realizzato come risulta e traspare dai suoi smalti e dalla sua vita.
Ciò che di lui affascina è che riesce ad infondere i suoi
stati d'animo coinvolgendo nelle sue sensazioni. Bastano pochi stilemi
per
entrare in un mondo che sa cogliere il sublime nel semplice, rinnegando
la
superficialità e cogliendo l'essenza. Forse la mia
sensibilità di agricoltore e
la mia attività a contatto diretto con la natura mi porta a
cogliere questa
peculiarità dell'artista ossia l'intensità di
un'ispirazione legata
all'incisività di un colore e di una forma.
Di questo dobbiamo tutti essergli grati: egli sa risvegliare
in noi l'universale, troppo spesso sopito e sommerso.
Mi giunge notizia che il Comune di Padova in
collaborazione
con l'Unione Provinciale Artigiani, giustamente, hanno in animo di dare
un
ulteriore segno di riconoscimento all'opera di un meritevole ed
illustre
concittadino, distintosi nel campo dell'arte, alla quale ha dedicato
tutta la
sua vita, attraverso innumerevoli manifestazioni.
L'iniziativa sollecita la mia memoria a ricordare l'amico carissimo,
l'artista affermato, il cittadino meritevole distintosi in ogni
iniziativa
volta all'affermazione dell'arte e degli artigiani in genere.
Rivado con il pensiero agli anni ormai lontani del mio
approdo a Milano quando iniziai la mia attività, prima nel campo
dell'arte
vetraria muranese, e ricordo l'arte del raffinato creatore Giacomo
Cappellin,
poi nel campo dell'artigianato in genere. Fu allora che, giovane,
cercavo
giovani valenti, creatori di nuove linee convinti cultori e
valorizzatori della
materia.
Quanti nomi illustri riaffiorano alla mente, per il ferro,
Mazzucotelli, per il vetro Cappellin da un lato, Venini dall'altro, per
la
ceramica Pietro Melandri di Faenza, Gambone di Vietri sul Mare,
Mazzocchi di
Albissola e via dicendo. Ed ecco che scopro in quell'epoca il giovane
Paolo De
Poli, pittore, che si cimenta nel lavoro dello smalto su rame e su
argento e da
allora per vent'anni i suoi smalti non sono mancati nella mia bottega
d'arte.
Stringemmo sempre più i nostri rapporti commerciali e con tale
rapporto si
rafforza il vincolo di una sincera amicizia. Combattiamo le stesse
battaglie,
lui nella sua fucina di via San Pietro 15 di Padova, io nella mia
bottega di
via S. Andrea
La guerra ci travolge, la mia bottega semi distrutta, Paolo
De Poli continua la sua attività, è chiamato al restauro
delle opere d'arte
distrutte, è chiamato a tutte le manifestazioni dell'arte quale
valente
consigliere e continua nella sua fucina a creare nuove opere sempre
più
raffinate e complete con spirito giovanile ma con la tenacia degna di
un
«cavaliere del lavoro».
Questo un affiorante nostalgico ricordo di una lunga e cara
amicizia. Ti abbraccio.
La burocrazia, i mass-media, le stesse abitudini
mentali dei
suoi abitanti defraudano la provincia delle sue virtù migliori e
la rendono
preda del velleitarismo dei mediocri, dell'arroganza dei maneggioni e
della
rassegnazione dei più. I giovani sognano lontane evasioni dove
trovare se non
più successo almeno più speranza e non c'è
artista, per quanto di modeste
ambizioni, che non programmi una sua mostra in uno di quei centri
maggiori,
magari a Milano, dove sembra si decidano le fortune che possono dare la
gloria
e, suo corollario affascinante e in-credibile, ma ricchezza.
La vita di provincia trascorre tra queste illusioni che
avviliscono il nostro sole e le nostre primavere facendoci sentire
condannati
dalla sorte ad un'ingiusta trascuratezza, ad un vegetare nell'ombra che
rende
persino amaro il riverbero della luce altrui.
Ma talvolta in queste città di periferia crescono artisti
che si ribellano al fatalismo della provincia e, o perchè hanno
un'indole
salda, o perchè se ne infischiano delle capitali, o
perchè hanno così grande
amore della vita e dell'arte che non si sentono né infelici
né trascurati
nemmeno nei sentieri, negli angoli, dove non passa, non arriva, la
fatidica dea
bendata, essi riescono a produrre cose originalissime e interessanti ed
oneste.
Essi riescono a valorizzare quell'humus locale che sembrava fecondo
soltanto di
inutili erbacce e sembrano ritrovare nelle viscere nascoste della loro
terra
dimenticate radici di sapienza e di bellezza. La pigra provincia allora
scopre
il suo viso, ritrova la sua autenticità, il suo orgoglio, la sua
pace.
Se altrove l'arte è arricchimento e consolazione, qui è
qualcosa di più: la salvezza. La liberazione dall'incubo della
lenta morte, la
ragione di vivere. Questi artisti partecipi della nostra noia, del
nostro
grigiore, della nostra disillusione sono i nostri migliori amici.
Quando li
abbiamo conosciuti finalmente sappiamo di avere qual-cosa a cui credere
oltre
alla non sempre affidabile squadra locale di calcio, e possiamo persino
permetterci di essere generosi perchè finalmente abbiamo
scoperto di avere
qualcosa da dare. Improvvisamente il mondo che ci circonda acquista un
senso e
una bellezza e persino le ottusità e i fallimenti che da lungo
tempo portavamo
dentro di noi assumono un sapore diverso, rivelano un in-sospettato
segno
positivo al di dentro della nostra personalità.
Nessuno avrebbe pensato che le strade di Padova che hanno
spesso il colore delle pozzanghere e che sono grevi di nebbie l'inverno
e di
afa l'estate possedessero tanta fantasiosa poesia prima di avere visto
le
incisioni di Tono Zancanaro. Nessuno sapeva che un pomeriggio deserto e
carico
di un'inguaribile monotonia potesse stendere sulle cose di tutti i
giorni un
alone di sorridente meraviglia prima di avere conosciuto le nature
morte di
Antonio Fasan. Nessuno aveva più ritrovato il piacere di
acquistare quattro
soldi di felicità dal banchetto di una fiera prima di avere
visto un paesaggio
del Prato della Valle di Fulvio Pendini. Ecco gli amici padovani che ci
hanno
confortato: Pendini portandoci a passeggio tra le giostre domenicali e
aiutandoci a trovare sui tetti della città illuminati dalla luna
il bandolo di
un'infantile magia. Zancanaro invece trascinandoci in mezzo a canzoni
sgangherate, a sghignazzare sulla sorte avversa. Fasan a distillarci i
sapori
di pareti domestiche che detestavamo come fossero una prigione e che ci
accorgemmo che invece di farci ammuffire avevano sottilmente vivificati
i
nostri sensi.
Tra questi padovani occorre aggiungere De Poli, non meno
padovano degli altri, non meno alchimista nel saper trasformare la
natura degli
elementi, la qualità della vita. Anzi, letteralmente, più
alchimista degli
altri, perchè abituato a lavorare con gli smalti, con il
miracolo del fuoco che
trasforma le opache misture chimiche nei più impensabili colori.
Il più
concreto anche di questi artisti perchè quello più
abituato a darci oggetti: tazze,
ciotole e bottiglie. Ma anche il più astratto perchè le
più belle opere di De
Poli sono solo colore e luce e come i più perfetti astrattisti
egli ci fa
dimenticare la natura, l'immagine delle cose, per portarci alle
frontiere delle
più indeterminate parvenze, dritto verso il linguaggio dei puri
stimoli, delle
pure emozioni. Ho avuto tante volte il piacere di parlare di De Poli e
di dire
tutto ciò che il suo mondo mi suggeriva e quali infiniti cieli
di meraviglie mi
aprissero i colori così fini, così assoluti, così
esaltanti delle sue ciotole.
Non esitai a riconoscere in lui le componenti più diverse, i
succhi della terra
che alimentano i fiori e la frutta delle nostre campagne, il
translucido dei
cieli e delle nubi, le profondità turchine della notte e del
mare, il fuoco dei
tramonti. Tutte le volte che sono entrato nel suo studio sono rimasto
incantato
dalla inesauribile varietà della sua produzione, dove anche i
temi più riusciti
si ripetevano con minime variazioni, ma dove egli non esitava a mutare
radicalmente
il registro della propria ispirazione proponendo combinazioni del tutto
nuove.
Mi esaltava l'assortimento delle sue invenzioni, il suo accanimento di
sperimentatore, di scopritore.
Mi divertiva la sua sorpresa con cui enumeravo le possibili
fonti della sua ispirazione, dalle stelle ai girasoli, dagli stagni
alle
pannocchie di granoturco. Sapevo bene che egli aveva cercato soltanto
accordi e
intensità, evanescenze e luminosità, e forse aveva
pensato più ai mosaici e ai
vetri antichi che ai colori della natura. Ma sapevo anche che nella
scelta
finale l'istinto l'avrebbe portato a effetti visti o sognati insieme a
noi, a
tutti noi padovani capaci delle più torve malinconie ma anche
delle più
sfrenate immaginazioni. Il suo albero di Natale recava appesi ninnoli
solo
apparentemente esotici: tutti quegli splendori, tutte quelle
raffinatezze,
quelle impalpabili emozioni erano fatte in casa.
Non è che oggi io voglia ridurre De Poli ad una
padovanità
che gli starebbe stretta perchè egli è oltretutto un
artista di ampia cultura,
che ha voluto conoscere e lottare anche fuori dei limiti della propria
città,che di tradizioni ormai ne aveva troppo poche e che,
più di tanto, non
era nemmeno disposta ad aiutarlo. Ma so benissimo che De Poli
Mi piace, personalmente, riconoscergli questa padovanità,
questa connotazione così difficilmente delineabile, eppure
presente, nel
momento in cui lo definiamo come il più astratto dei nostri
pittori, l'unico
anzi che abbia praticato l'astrattismo totalmente, d'istinto, e prima
degli
altri, e l'unico anche che per questo non abbia provocato mai nessuna
reazione,
nessuna domanda di spiegazione nel pubblico. L'astrattismo di De Poli
è nato
come una necessità espressiva, senza complicazioni, senza
ambiguità e senza
esibizionismi intellettuali.
Oggi l'astrattismo sta passando di moda. Ma non è certamente
passata di moda l'onestà morale, il rigore tecnico con il quale
De Poli ha
sempre lavorato. Per cui anche quando i nostri figli o i nostri nipoti
si
chiederanno, vedendo certe opere, come ai nostri tempi fossimo
così matti, non
cesseranno di ammirare le tazze di De Poli, i suoi colori dove puoi
trovare il
cielo il mare e la campagna, l'inverno e la primavera, l'autunno e
l'estate e
tutte le ore del giorno e tutte le meraviglie che dallo studio di una
vecchia
strada di Padova si possono sognare.
O questo, o quello o tutto mescolato insieme, secondo
dosaggi che per De Poli erano solo grumi sordi di polverine sul metallo
che
doveva cuocere e che erano invece, anche se faceva finta di non
saperlo, brani
della sua anima, i rintocchi del suo cuore.
Paolo De Poli. artista smaltatore, è sempre
stato per me una
figura un po' mitica, uno di quei personaggi che risultano sempre
presenti nei
momenti importanti e decisivi non solo della storia della città
in cui vivono,
ma del proprio tempo, della cultura della propria epoca; hanno antenne
specialissime e uno spessore di umanità che li guidano nei
luoghi degli eventi
e alle scelte significative, in perfetta sincronia. Naturalmente non si
tratta
di casualità, ma, io almeno credo, di parti-colare intelligenza,
di finezza nel
«sentire» le occasioni e le urgenze, e di
disponibilità alla fatica, alla
ricerca, all'esperimento, all'aperto confronto degli esiti. Fino a
qualche anno
fa De Poli mi era noto oltre che per i molti lavori a smalto che di lui
avevo
visto e vedevo (ebbi la ventura di navigare nel 1966 da New York a
Genova sulla
Raffaello, dove ben ottocento metri di corrimano erano pregevolissima e
assai
ammirata opera decorativa di De Poli), soprattutto per i rapporti molto
stretti
che egli aveva saputo stabilire con Giò Ponti, in uno dei
periodi a mio avviso
più fervidi, felici e proficui dell'arte a Padova, tra la fine
degli anni
Trenta e l'inizio del decennio successivo, quando sotto il Rettorato di
Carlo
Anti e per ispirazione di Giò Ponti e di Giuseppe Fiocco,
l'Università di
Padova si arricchì delle più belle testimonianze
dell'arte italiana del secondo
Novecento, con opere di Achille Funi, di Filippo De Pisis, di Gino
Severini, di
Bruno Saetti, di Massimo Campigli, di Arturo Martini, di Marcello
Mascherini,
di Casarini, dello stesso Giò Ponti e dei tanti artisti locali
(Morato, Fasan,
Peri, Zancanaro, Pendini e naturalmente De Poli) che videro allargarsi
i loro
orizzonti grazie a momenti di alto magistero tecnico e formale.
La collaborazione e l'amicizia con Giò Ponti continuarono
fino alla morte del grande architetto-artista.
Ma De Poli mi era noto anche per il suo impegno civile.
Molti anni fa, dovendo scrivere per un giornale studentesco un articolo
sugli
affreschi del Mantegna nella Cappella Ovetari agli Eremitani,
intervistai
l'allora direttore del Museo Civico di Padova Alessandro Prosdocimi, il
quale
così si espresse: «Non si sarà mai abbastanza grati
al cav. Paolo De Poli,
perchè egli fu il primo e per molte ore il solo che,
immediatamente dopo il
tremendo bombardamento del 1944, si aggirò per giorni e giorni
tra le macerie
raccogliendo e catalogando amorosamente i frammenti del grande ciclo di
affreschi, cercando di prevenire i furti che, purtroppo si
verificarono,
irreparabili, nonostante la sua presenza».
Da qualche anno ho potuto avvicinare questa figura di
artista presente con i suoi lavori nei maggiori musei del mondo ed alle
principali manifestazioni internazionali, dalle Biennali di Venezia
alle
Triennali di Milano, e ho avuto modo di accostarmi ai segreti del suo
mestiere
raffinato fino alle ideazioni e realizzazioni di più pura
declinazione
estetica. Mi aveva introdotto al godimento di certe specialissime
trasparenze,
della purezza di forme e alla scoperta degli effetti cromatici multipli
e
cangianti il sensibilissimo poeta padovano Giulio Alessi, mio
indimenticabile
amico ed estimatore sincero dell'arte di De Poli. Ma la conoscenza era
sempre
stata indiretta e mancava alla mia esperienza il rapporto con la
persona
affabile e tenace, piena di energie istintive ma controllate e guidate
sempre,
con chiara consapevolezza dei limiti e delle finalità, agli
esiti più alti nel
lavoro, nell'arte come nell'esperienza di vita quotidiana e familiare.
La disponibilità di De Poli al dialogo svela al visitatore
gli entusiasmi di una vita bene spesa nel lavoro, nella ricerca e negli
esiti
molto spesso eccellenti ai quali ha saputo ricondurre un'arte
antichissima che
pareva dimenticata, rinnovandola con speciale sensibilità di
pittore combinata
a vivacissima curiosità di sperimentatore. Dalle esperienze
pittoriche alla
scuola di Guido Trentini, seguendo una naturale inclinazione per la
modulazione
degli effetti cromatici e luministici - già nella pittura, non
appena si
staccava dalle dense atmosfere e dall'impianto tipicamente novecentista
del
maestro, era soprattutto per sviluppare sorprendenti profondità
di campi
luminosi e vibrazioni materiche (si veda il dipinto Fienili a Ortisei
del 1935)
- De Poli fin dagli inizi degli anni Trenta era passato, riprendendo lo
studio dello
sbalzo su rame appreso all'istituto d'arte, agli smalti, alla
sperimentazione
tecnica di questa disciplina artigianale ed artistica di estrema
rigorosità, in
quanto non ammette approssimazioni, nè errori, né effetti
casuali, anche se
l'artista autentico sa avvalersi di errori e di effetti casuali per
proporre e
consolidare innovazioni tecniche e formali. Col tempo e con
instancabile
esercizio, De Poli ha messo a disposizione della già accertata
sensibilità
pittorica un'esperienza tecnica di rare profondità e ampiezza,
collaborando con
pittori e scultori, con designers, architetti e decoratori, giungendo a
risultati di autonoma invenzione e creazione, principalmente nella resa
efficace delle trasparenze cromatiche che si sciolgono sul metallo in
materia vitrea
purissima che pulsa alla luce e anima lo spazio, e nell'idea delle
«famiglie»
di oggetti, di ciotole, di vasi, di piatti che diventano forme vive,
modulazioni plastico-pittoriche di eccezionale bellezza e di rilevante
capacità
decorativa.
L'ambiente che meglio consente di cogliere e di penetrare i
valori artistici di questa sua semi-secolare ricerca tecnica ed
estetica è,
ovviamente, lo «studio», il grande laboratorio nel cuore di
Padova antica, nel
quale si riscoprono l'attivismo, i colori, gli odori, i gesti e i
rapporti
umani della più tradizionale «bottega» artigianale,
insieme luogo di
produzione, di personalizzati contatti con la clientela e la
committenza e
luogo di autentica scuola viva. Lì, De Poli, fra gl'innumerevoli
oggetti della
sua produzione, tra i cartoni di artisti illustri come Severini,
Saetti,
Casarini, Mo-rato, Sassu, accanto al monumentale Gallo tratto da una
scultura
di Marcello Mascherini, tra le opere della sua libera invenzione di
ispirazione
sempre fedelmente naturalistica e quelle di ordinaria produzione e
committenza
raggruppate per forma, battitura e colore, De Poli entra nella magica
dimensione dell'artista antico, al tempo stesso artefice e inventore,
plasmatore e alchimista, operaio e Maestro, designer, pittore e
scultore. E si
è subito contagiati dall'atmosfera di serena laboriosità
e dall'ordine
metodologico che sovrintendono la complessa processualità
tecnica di ideazione,
preparazione ed esecuzione di un lavoro le cui fasi sono giunte fino a
noi
dall'antico Egitto e dall'Oriente attraverso Bisanzio e le splendide
realizzazioni di Limoges, dei decoratori toscani del '300 e degli orafi
rinascimentali (lo stesso Cellini ebbe a descrivere i processi di
smaltatura).
Ogni momento (ideazione e preparazione al tornio dei pezzi,
decapaggio o pulitura radicale e lavaggio delle forme per prepararle a
«ricevere» lo smalto, smaltatura e lavaggio degli smalti,
cottura,
controsmaltature, interventi decorativi) è attentamente
valutato, calibrato e
registrato, saggiato nelle sue possibili varianti, negli esiti
occasionali cui
possono condurre una diversa declinazione cromatica, inedite
miscelature e
velature, o variazioni nei processi tecnici di smaltatura per
accrescere gli
effetti di rifrazione luminosa, i quali si moltiplicano dialogando con
le
variazioni di intensità e di direzione della luce quasi come
nelle antiche
vetrate gotiche.
«La vera scuola - dice Paolo De Poli - è il lavoro.
Moltissimi degli effetti materici e pittorici delle mie opere sono
frutto di
meditazioni su errori e su esiti inizialmente casuali o sperimentali
dei quali
mi sono appropriato individuandone le cause e sviluppandone le
possibilità
(espressive e decorative). Ogni tonalità è prodotto
conclusivo di combinazioni
complesse che in alcuni casi superano anche i venti colori. Ho
visualizzato una
tavola di ben 42 varietà cromatiche di smalti e per ciascuna, in
laboratorio,
c'è la registrazione minuziosa delle materie e delle fasi
necessarie a
riprodurla».
La tecnica, la conoscenza profonda e il rispetto della
materia (De Poli ha sempre rinunciato allo smalto coprente preferendo
la magia
della trasparenza che esalta le qualità della materia di
supporto), la passione
per le gamme e i giochi di colore-luce sono per De Poli, come per ogni
vero
Maestro Artigiano, momenti irrinunciabili che sostengono tanto il
«mestiere»
esercitato anche sui più semplici oggetti decorativi, quanto la
più meritata
ricerca progettuale ed estetica. De Poli ci restituisce, così,
l'immagine più
convincente dell'artista che apprende quotidianamente dal
lavoro-mestiere la
sua arte, i segreti della materia e del colore, le magie degli smalti
che si
fanno attraversare dalla luce, diventano liquore di luce cristallizzata
nelle
tonalità più omogenee, o campo di intensa vibrazione
luminosa nell'espandersi
per sovrapposizione, rifrazione e velature dei colori e degli smalti
diversi,
sempre calibrati e declinati in modo da esaltare in piena luce la forma
semplice e pura dell'oggetto, della figura, del ritmo della struttura
plastica
e, insieme, le qualità della materia, l'oro dei gioielli,
l'argento dei piatti,
il rame delle ciotole, dei vasi, degli animali (tori, pavoncelle,
colombe,
cavalli, gatti).
in L'Arte dello Smalto: Paolo De Poli, 1984